Fìdati!

Questa è la trascrizione dell’intervento che ho tenuto il 24 febbraio 2018 in occasione del World Information Architecture Day, festeggiato a Bari.

federico badaloni
12 min readFeb 26, 2018

Oggi sono qui per parlarvi di fiducia. Potrebbe sembrare un tema astratto, lontano dal lavoro di progettazione. Invece sono convinto che sia molto concreto, strettamente legato al lavoro di architettura delle informazioni e di user experience design. Anzi, diciamola tutta: penso proprio che progettare per la fiducia sia il cuore del nostro compito.

Partiamo da qualcosa che conosciamo bene, il mondo dei mass media.
E’ il mondo da cui veniamo, quello in cui siamo abituati a dare fiducia a chi:

  • trova i suoi punti di forza
  • li comunica in modo assertivo, perfino aggressivo
  • cerca di ottenere credenziali e attestati da mettere in mostra
  • nasconde le proprie debolezze
  • mostra di essere in pieno controllo dell’ambiente che lo circonda

La fiducia in un brand si costruisce sulla forza, non sulla debolezza. Forza uguale fiducia. E vale anche per gli individui.

Conta ciò che si sa: il proprio “capitale di conoscenza”. Più questo capitale è esclusivo, più valore ha: chi sa qualcosa che nessun altro sa, possiede un tesoro. Tutto quello che bisogna fare è proteggere e difendere questa conoscenza e poi rilasciare prodotti o servizi basati su di essa.

Io però mi trovo d’accordo con John Hagel: la rete ha cambiato radicalmente le cose e oggi il valore maggiore non viene generato da “capitali di conoscenza”, ma da “flussi di conoscenza”.

La ragione più evidente è che il cambiamento è molto rapido, le connessioni fra gli oggetti e le persone si riconfigurano continuamente, dunque i capitali di conoscenza invecchiano subito. Lo si nota dal ritmo al quale si susseguono nuovi prodotti o nuove versioni di un prodotto oppure dalla rapidità con cui evolvono i linguaggi di programmazione.

Per avere successo in questo scenario, piuttosto che possedere dei capitali di conoscenza, dobbiamo essere in grado di rinnovarli ed adattarli costantemente. In quale modo? La risposta è partecipando a flussi di nuova conoscenza. Dai capitali ai flussi.

Quando un flusso di conoscenza avviene attraverso una rete piuttosto che attraverso un unico canale, esso è composto da persone che sono potenzialmente pari fra loro. In questa rete la regola è semplice: ognuno deve contribuire al meglio delle proprie possibilità. L’obiettivo comune è creare nuovo valore attraverso la condivisione. Per questo, quando partecipiamo ad un flusso di conoscenza tendiamo a promuovere e premiare chi è generoso e a marginalizzare chi ai nostri occhi sembra essere presente solo per prendere informazioni, senza mai darne in cambio.

Ma se scaviamo a fondo, qual è la condizione essenziale perché un flusso di conoscenza possa nascere e prosperare? La fiducia.
Senza fiducia non può esserci lo scatto di gratuità, il dono se volete, che costituisce sempre il primo passo di una condivisione fra pari.

Perché batto tanto su questo tasto della parità? Perché è la differenza più grande fra il mondo dei mass-media e il mondo di oggi, dove non esiste più lo sbilanciamento assoluto che connotava strutturalmente il modello di comunicazione della radio, dei giornali o della televisione.

Come scrive Clay Shirky, la rete ha dato agli individui la possibilità di esprimersi in maniera autonoma, indipendente, disintermediata e di connettersi liberamente fra loro. In questo modo, ha scardinato il concetto di “massa” inteso come insieme di consumatori di uno stesso prodotto, facendo nascere al suo posto un ecosistema popolato da innumerevoli comunità che si aggregano e si disgregano sulla base di comuni interessi.

Perché un nostro atto di comunicazione, una nostra app o un sito funzionino, è fondamentale che siano fondati su una conoscenza etnografica, non più genericamente demoscopica, delle comunità alle quali sono dedicati. Questo presupposto è l’unico che rende possibile dialogare in maniera autentica. E ho scelto con cura questo verbo: fino ad oggi la comunicazione mass-mediale trasmetteva informazione. Ma oggi, poiché la comunicazione si svolge attraverso un rete, essa avviene privilegiando la dimensione del dialogo.
Non mi riferisco necessariamente ad una costante attività di comunicazione diretta fra gli individui, ma anche fra gli individui e i sistemi, oltre che fra i sistemi stessi. Il dialogo è aspettarsi di ricevere uno stimolo in risposta al proprio ed essere disposti ad accoglierlo.

Il dialogo è il senso dell’essere connessi, che oggi significa essere “presenti”.

Hagel fa notare che è la fiducia, non l’informazione, la vera risorsa critica oggi. Ed è la fiducia, non l’informazione, che scarseggia nel mondo perché -a differenza di un “capitale di conoscenza”- è un bene difficile da conquistare e facile da perdere.

Ma se la fiducia è il presupposto perché possa nascere un flusso di conoscenza, il mutual value ne deve essere il frutto necessario. Il mutual value, che potremmo tradurre con “valore reciproco”, è stato definito da Andy Neely dell’università di Cambridge come sintesi degli interessi di tutte le parti coinvolte nell’utilizzo e -ancora prima- nella co-creazione di un sistema di prodotti e servizi. Senza percepire un valore reciproco nessuno vorrà contribuire a lungo a un flusso di conoscenza.

In genere maturiamo questa percezione facendo piccoli passi di fiducia, uno dopo l’altro. La dinamica di questi piccoli passi è che si condivide un po’ di conoscenza (di tempo, di esperienza) e si osserva se qualcuno reagisce condividendone a sua volta. Poi si condivide una quantità di conoscenza maggiore o di qualità più alta e si osserva se se ne riceve in cambio altrettanta, e da chi.

E’ compito del designer (to design vuol dire progettare) saper dosare opportunamente questo approccio scalare. Questa competenza è critica per tutti i business basati sull’appartenenza e condivisione, come i programmi di membership di nuova generazione.

I punti più importanti a cui fare attenzione sono ad esempio:

  • i meccanismi di rinforzo con i quali si fa in modo che il sistema premi gli atteggiamenti virtuosi da parte degli utenti
  • il modo in cui sono concepiti i metadati dei contenuti, poiché essi possano essere ricondotti con sicurezza al contesto e alle persone che le hanno generati
  • in generale, i tempi di risposta e le dinamiche di interazione fra il sistema e le persone

Questo discorso ci ha portato a un paradosso: ciò che nel mondo dei mass media serviva per costruire fiducia, ora serve a distruggerla. Prima dicevamo che la fiducia in un brand si costruiva sulla dimostrazione di successi, di punti di forza, non sulla debolezza. Ma in una rete di pari, per conquistare la fiducia altrui serve anche mostrarsi deboli.

Pensateci: un genitore che non sbaglia mai non potrà mai essere considerato un modello con il quale valga la pena dialogare. Farà sentire i figli incapaci, quindi indegni di ricevere fiducia. Trasmetterà ai propri figli l’idea che gli errori non siano un’opportunità per crescere, cioè un valore. Il risultato sarà quello di bloccarli, di paralizzarli nella paura di sbagliare e nella sfiducia in se stessi. Fra gli adulti, e fra gli adulti e i brand, funziona allo stesso modo. E siccome noi tutti sappiamo che le sfide che dobbiamo affrontare ogni giorno si rinnovano a un ritmo vertiginoso, chi mostra solo i propri punti di forza sta propinandoci una rappresentazione parziale della realtà.

Chi riconosce la propria vulnerabilità rispetto al cambiamento mostra non soltanto di saperla accettare (esprimendo già così forza e maturità, a ben guardare), ma di considerarla una delle variabili del sistema che possono generare valore, e qui mi sto riferendo a un valore economico.

In un flusso di conoscenza il patto è: “io colmo i tuoi punti deboli e le tue incertezze con le mie competenze e tu fai altrettanto”. E’ la cultura che porta a rilasciare un sito o un servizio in beta, chiamando coloro che riconoscono valore in esso a collaborare per migliorarlo ed è la stessa cultura che lavora in modo agile, dove la fiducia in un team è ripagata da continui rilasci incrementali e disponibilità ai cambiamenti in corsa.

La fiducia si ottiene solo dando fiducia.

L’istinto però ci spinge a non mostrare le nostre vulnerabilità. Come possiamo fare? Sicuramente uno dei modi migliori è seguire la propria passione. Le relazioni basate su una passione comune sono molto più forti delle altre. In genere una persona appassionata si mostra per quello che è, non ha tempo né interesse a portare una maschera. Se incontra qualcuno come lui, vuole condividere le difficoltà che sta incontrando, le risposte che non sta trovando, perché la fame di conoscenza e la voglia di risolvere le proprie difficoltà lo portano a sperare che chi ha la sua stessa passione sia in grado di aiutarlo a risolverle. Ed è così che si stabilisce una scintilla di fiducia reciproca: condividendo debolezze sperando nell’altro.

Chi ha una passione, in sostanza, utilizza la propria vulnerabilità per amplificare i flussi di conoscenza, invece di fare gelosamente la guardia al proprio capitale di conoscenza. Lo sa bene -ad esempio- chi frequenta Github, dove si collabora per scrivere codice migliore, o chi ha postato almeno una volta una domanda in qualunque forum.

Se il primo passo è accettare di condividere anche le proprie debolezze, il secondo è accettare il ritmo del cambiamento del mondo che viviamo, valutare che in questa instabilità possa risiedere un valore.

E’ un atto di volontà. La volontà di adattare continuamente le proprie conoscenze, di connetterle in modo nuovo, anche a concetti e conoscenze apparentemente molto distanti fra loro. Hagel la riassume così: the balance of trust shifts from skill to will.

Ma in una rete oltre a chi è disposto ad aggiornare le proprie conoscenze e a mettere in circolazione fiducia siamo più propensi ad affidarci a chi si dimostra capace di relazionarsi all’ecosistema generale in modo sostenibile. In altri termini, chi vuole meritare fiducia deve pensare al proprio prodotto o al proprio servizio come un contributo virtuoso all’ambiente esteso di cui quel servizio o quel prodotto fa parte. E non bastano professioni di fede: nel mondo in cui il reale è digitale e il digitale è reale, ci aspettiamo di poter fare esperienza immediata di queste professioni.

Qualche idea?

  • rendere accessibili e trasparenti i propri processi di lavoro
  • rendere accessibili i propri errori
  • condividere parte del controllo dell’ambiente con le persone, come avviene ad esempio in Waze: una app per girare attorno ai blocchi di traffico nelle città in cui sono anche gli stessi utenti a segnalare code, incidenti e lavori, o come avviene in Airbnb o Booking, o Uber o Ebay dove chi offre un servizio e chi lo riceve si valutano reciprocamente
  • rendersi disponibili a un contatto diretto (indirizzi, telefoni, eccetera)
  • pubblicare informazione che sia comprensibile anche dalle macchine, attraverso dati ben strutturati, espressi in linguaggi standard

A questo proposito, La Repubblica e La Stampa sono stati fra i promotori di un’iniziativa mondiale, assieme ai più grandi editori e da Google, che ha prodotto uno standard per descrivere le fonti dei contenuti pubblicati, le finalità, la biografia dell’autore, il codice etico che ne ha guidato il lavoro. E’ stato chiamato The Trust Project. E se siete fra coloro che sono preoccupati dalle fake news, vi invito caldamente ad andare a vedere di cosa si tratta.

Mettere le persone in condizioni di capire “come funziona” un prodotto o un servizio è essenziale per ottenere la loro fiducia. D’altronde, come dice Arthur Weasley a sua figlia Ginny, sanno tutti che:

“Non ti devi fidare mai di niente che pensi da solo… se non riesci a capire dove ha il cervello” (J. K. Rowling, da Harry Potter e la Camera Dei Segreti)

Ogni volta che creiamo prodotti o servizi che “pensano da soli”, come avviene in qualunque sistema usi un algoritmo, quindi sarà bene che ci preoccupiamo di far capire bene ai nostri utenti “dove sta” questo cervello.

Jakob Nielsen dice che conquistare la fiducia di una persona con il nostro prodotto o servizio è come invitarla a salire sulla cima di questa piramide:

Ad ogni gradino, la persona matura dei nuovi bisogni. Alla base la persona si domanda: questo sito -o questo servizio- può aiutarmi a realizzare il mio obiettivo? E’ credibile? Ha davvero a cuore il mio interesse?
Nel gradino giallo si chiede: vale la pena usare questo sito per fare ciò che voglio fare? è davvero meglio di altri siti o servizi analoghi?
Poi: l’offerta di questo sito vale lo sforzo e il tempo di registrarsi? Mi fido a dare informazioni personali? Voglio ricevere email da questo servizio?
Un gradino più su c’è: Posso comunicare dati che sono molto critici per me, come il numero della mia carta di credito? Vale la pena correre il rischio?
Infine: voglio restare costantemente in contatto con questo sito, abbonarmi con regolarità ai suoi servizi, eccetera?

Ecco la home di un sito che pretende che l’utente salti direttamente al quarto gradino. E’ come se dicesse: “ciao, ti racconto chi sono fra un secondo; tu però prima dammi il tuo indirizzo, il tuo codice postale e la tua mail”.

Un po’ troppo no?

Quando chiediamo uno sforzo maggiore all’utente, dobbiamo partire dall’idea che lo farà solo se avrà maturato una fiducia maggiore nei nostri confronti.

Nel nostro gruppo editoriale stiamo compiendo diversi esperimenti basati su nuovi modelli di business basati su un rapporto di fiducia. Uno di questi sta avvenendo in Friuli Venezia Giulia, con Il Messaggero Veneto: uno dei quotidiani locali del Gruppo GEDI.

Tutto è cominciato con la disponibilità della redazione a compiere una vera e propria metamorfosi: passare da un modello di comunicazione con le persone che potremmo definire “io-parlo-tu-ascolti”, ad uno basato sulla collaborazione. Insieme alla redazione è cominciato un percorso in cui le persone più legate al giornale sono state invitate a registrarsi per partecipare a eventi, incontri con i giornalisti, con politici, con personalità di spicco del mondo culturale, imprenditoriale e sportivo organizzati dalla redazione. Queste persone sono anche fisicamente entrate in redazione, partecipando ai momenti-chiave della costruzione del giornale del giorno dopo e partecipando agli incontri che sono stati chiamati Il Caffè col Direttore. Questo ha cementato un forte senso di comunità in breve tempo.

Dopo qualche mese, solamente quando era chiaramente percepito un mutual value da parte di tutti coloro che fanno parte di questa comunità, è stato chiesto agli utenti di accettare di sostenere il giornale attraverso un pagamento per continuare ad accedere ai contenuti e ai servizi del giornale. Questo passaggio è avvenuto poche settimane fa e sta dando ottimi risultati. Siamo davvero contenti di come i giornalisti e i lettori siano stati capaci di collaborare dandosi reciprocamente fiducia.

Per chiudere, vorrei citare le raccomandazioni del giornalista britannico Charlie Beckett ai colleghi che vogliono meritare la fiducia dei propri lettori:

  1. hai il diritto di usare le informazioni delle persone, ma hai la responsabilità di proteggere la loro privacy
  2. puoi acquisire il diritto di parlare dimostrando di saper ascoltare
  3. puoi dimostrare il valore di ciò che fai capendo il valore delle persone con cui interagisci

Noi architetti dell’informazione, o user experience designer, siamo quelli che devono inventare e progettare gli ambienti in cui tutto questo possa accadere. Sentiamo risuonare fortemente questi concetti in noi, perché abbiamo basato da sempre il nostro modo di progettare servizi e prodotti sugli esseri umani.

Abbiamo a cuore le persone, infatti, quando cominciamo un nuovo progetto facendo per prima cosa una ricerca etnografica.
Abbiamo a cuore le persone, quando subordiniamo le soluzioni ai bisogni reali.
Abbiamo a cuore le persone, quando passiamo ogni nostro artefatto al vaglio dei test di usabilità, pronti a mettere in discussione le nostre convinzioni e a imparare nuove cose.

In fondo, progettiamo ambienti digitali e fisico-digitali perché in essi possano realizzarsi degli incontri. Potremmo considerarli incontri fra le persone e le informazioni, ma trovo più giusto dire che progettiamo ambienti perché in essi le persone costruiscano valore incontrandosi per scambiare informazioni.

Non c’è valore se non c’è scambio di informazioni.
Ma non c’è un valore nello scambio di informazioni se non c’è un incontro autentico fra le persone.
E non c’è un incontro autentico se non c’è fiducia.

Il primo obiettivo del nostro progettare deve essere dunque creare ambienti che instaurino un presupposto di fiducia reciproca in coloro che li abitano.

Perché progettati sui bisogni reali delle persone
Perché progettati per premiare i comportamenti virtuosi
Perché progettati per condividere il controllo sulle informazioni
Perché progettati per creare e conservare valore
Perché dotati… di un cervello bene in vista.

Questo significa essere un Architetto dell’Informazione.
Questo significa essere uno User Experience Designer.

Grazie

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