Elogio dell’indefinito

federico badaloni
11 min readOct 26, 2021

Definire è discriminare. E’ possibile progettare un servizio o un prodotto evitando questo rischio?
L’articolo è tratto dall’intervento conclusivo del Summit annuale di
Architecta, la società italiana di architettura dell’informazione, tenuto il 24/10/2021.

Guardate questa immagine in movimento. Cos’è?
Difficile dirlo. Potremmo forse riconoscere una forma in un certo attimo. In effetti, l’essenza di ciò che stiamo osservando sta nel suo movimento continuo. La sua forma è una somma di possibilità di movimento. Questa cosa non è una forma definita, piuttosto ha tante forme che si susseguono.

Gran parte di ciò che osserviamo attorno a noi presenta queste caratteristiche. Qual è, oggi, il mio luogo di lavoro? Come penso accada per molti di voi, esso è indefinito. La mia relazione con gli oggetti è indefinita: non possiedo più un motorino o una bici, ma accedo a molti motorini e molte bici quando ne ho bisogno e questo accesso avviene in modi diversi. Inoltre sto domandandomi se devo conservare quella forma fissa di relazione con la mia macchina che chiamo “proprietà”, visto che potrei mutarla in una continua varietà di relazioni a seconda dei vari contesti in cui potrei averne bisogno: affitto estemporaneo, affitto a lungo termine, car sharing, eccetera. Un altro esempio: se su Netflix ho visto un film insieme a un mio amico che si trova in un’altra città, in che luogo eravamo? Siamo costantemente connessi, in una continua oscillazione fra online e offline: riprendendo le parole del filosofo Luciano Floridi, viviamo onlife.

Spostiamo il ragionamento in ambito sociale: i nostri legami sono indefiniti (pensate alle diverse forme di convivenza o di rapporto affettivo e a quanto poco le ultime generazioni sentano la necessità di definirle). La nostra “età sociale” è molto meno definita di quanto non fosse anni fa: fino a che età si è “ragazzi”? Come si dovrebbe comportare un quarantenne? e un sessantenne? Quando si è “vecchi”? Pensate anche alla crescente difficoltà di definire il genere o l’orientamento sessuale.

Anche il rapporto con il tempo assume forme sempre più sfumate: il lavoro, un tempo rigidamente regolato dalle otto ore e dagli eventuali “straordinari”, oggi -con lo smartworking- tende a svolgersi in un tempo indefinito (con tutti i problemi che questo genera, in un apparato normativo vecchio di almeno un secolo). Il nostro rapporto con il “presente” è sempre più vago: innanzitutto perché possiamo conservare un’enormità di dati di ogni attimo e questo ci consente di rendere presente il passato con una vividezza che l’umanità sperimenta per la prima volta. Inoltre, perché in molti ambiti (la meteorologia, per dire, ma anche l’epidemiologia, lo sport, eccetera) possiamo prevedere il futuro -o almeno il prossimo futuro- con un grado di incertezza molto minore di prima, grazie all’intelligenza artificiale. Infine, se mi permettete un gioco di parole che evidenzia la sovrapposizione -anche linguistica- fra la categoria dello spazio e quella del tempo, tendiamo a considerare “presente” anche ciò che è semplicemente disponibile, ossia di cui è disponibile una forma di presenza mediata dalla rete (quindi praticamente tutto, oggi).

Anche se volessimo definire la realtà con l’artificio di pensarla e fissarla in un singolo attimo, ebbene anche quel singolo attimo ci apparirebbe oggi come un insieme di possibilità, un potenziale, più che uno stato. Pensiamo alla lezione di Baumann in Modernità Liquida: “l’istantaneità (annullando la resistenza dello spazio e liquefacendo la materialità degli oggetti) fa apparire ciascun momento infinitamente capace e la capacità infinita significa che non esistono limiti a quanto è possibile ottenere da ciascun momento, per quanto ‘fugace’ possa essere”.

Nell’ambito dei processi produttivi, possiamo vedere tutto il movimento agile degli ultimi vent’anni come volontà di creare un metodo di lavoro basato sull’ineludibilità del cambiamento continuo, intendendo sia il cambiamento dei requisiti dei prodotti e dei servizi che si progettano, ma anche quello dello stesso metodo con cui lo si sta facendo. Un metodo che include l’errore come parte integrante e ineludibile delle mutazioni possibili.

Il professore di fisica Carlo Rovelli, nel meraviglioso libricino L’ordine del tempo, scrive che mentre in passato il mondo sembrava comprensibile se immaginato come un insieme di cose, di entità, oggi è tale solo se lo pensiamo come un insieme di eventi, cioè di “accadimenti che si combinano”. La differenza fra le cose e gli eventi è che le cose permangono nel tempo. Gli eventi hanno durata limitata. “Un prototipo di una ‘cosa’ è un sasso -scrive Rovelli-: possiamo chiederci dove sarà domani. Mentre un bacio è un ‘evento’. Non ha senso chiedersi dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi”.

La fisica ha capito che gli oggetti “sono caratterizzati dal modo in cui interagiscono”. In particolar modo, scrive Rovelli in Helgoland, la teoria dei quanti “è la scoperta che le proprietà di ogni cosa non sono altro che il modo in cui questa cosa influenza le altre”. “Un oggetto è uno, nessuno e centomila. Il mondo si frantuma in un gioco di punti di vista, che non ammette un’unica visione globale. È un mondo di prospettive, di manifestazioni, non di entità con proprietà definite o fatti univoci. Le proprietà non vivono sugli oggetti, sono ponti fra oggetti. Gli oggetti sono tali solo in un contesto, cioè solo rispetto ad altri oggetti, sono nodi dove si allacciano ponti. Il mondo è un gioco prospettico, come gli specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro”. È un pensiero del quale possiamo rintracciare le origini in Platone, il quale scriveva nel Sofista: “dico dunque che ciò che per natura può agire su altro, o patire anche la minima azione da parte di altro, per insignificante che esso sia, e sia pure una volta sola, questo solo si può dire veramente reale. Propongo dunque questa definizione dell’essere: che esso non sia se non azione”.

Le azioni di cui parla Platone sono infatti gli eventi di cui parla Rovelli e sono ciò che noi architetti dell’informazione siamo forse più abituati a considerare come relazioni, o funzioni. Come archi di quel grafo che appare essere ai nostri occhi ogni giorno di più la realtà fisico-digitale. Una volta un amico mi ha detto: “un individuo è definito dalla propria natura e dai propri bisogni, mentre una persona è definita dalle proprie relazioni: un padre è un padre rispetto un figlio, un marito è un marito rispetto alla moglie”. Le influenze che ci rendono persone costantemente nuove sono proprio le relazioni. Ecco: noi siamo in un epoca in cui ci sentiamo molto più persone e molto meno individui. E ognuno di noi sente di essere tante persone. Non una sola.

Vediamo convergere su questa visione autori che provengono da campi molto differenti fra loro. La psicologa Kathleen Wallace, ad esempio, autrice di The network self: relation, process, and personal identity, afferma che la percezione di noi stessi è definita non solo dall’incarnazione, o dalla memoria o dalla coscienza delle relazioni sociali, ma dalle relazioni stesse. Noi siamo il frutto del susseguirsi di relazioni nel tempo. Alcuni nessi, o tratti, di questa rete possono assumere una rilevanza maggiore in un dato momento della nostra vita (la nascita di un figlio, ad esempio, o l’assunzione in un nuovo posto di lavoro). Alcune relazioni, inoltre, possono essere salienti in certi contesti e irrilevanti in altri.

Ora accade però che quando pensiamo a noi stessi, l’essere indefiniti, cioè l’essere tante persone presenti e possibili non ci destabilizza, quando pensiamo agli altri le cose cambiano. Secoli di “cultura degli individui” invece che delle “persone”, oppure -direbbe Rovelli- secoli di “cultura delle cose” invece che degli “eventi”, ci hanno inculcato il bisogno di definire l’Altro. Fissarlo. Inchiodarlo ad un suo tratto. Un tratto che consideriamo “caratteristico”. In questo modo perdiamo di vista che ognuno di noi è definibile al massimo rispetto a un contesto specifico.

La separazione di un fenomeno dal contesto in cui si manifesta è il più grande tradimento che possiamo fare alla realtà ed il più grande errore di progettazione per un designer. Perché quando qualcuno stabilisce arbitrariamente che un tratto particolare della nostra persona, cioè uno dei nostri modi di manifestarci, sia più rilevante di altri al punto da poterci definire sempre, in tutti i contesti spaziali o relazionali e per sempre, cioè in tutti i tempi futuri, egli compie un atto di violenza nei nostri confronti, proprio perché discrimina e condanna all’oblio tutto ciò che siamo oltre quel tratto. Inoltre, quando un unico tratto della nostra persona viene usato per definirci in generale, questo si accompagna quasi sempre a delle regole di comportamento o di giudizio: “sei omosessuale, quindi…”, “sei cattolico (o musulmano, eccetera), quindi…”, “sei donna (o uomo), quindi…”. Discriminare perciò è attribuire arbitrariamente salienza ad un certo tratto in qualunque contesto.

La discriminazione è violenza proprio perché ignora arbitrariamente la nostra complessità, ci definisce sminuendo il valore del nostro sé-rete e tende a cristallizzarci in un momento della nostra evoluzione relazionale, invece che considerarci come persone immerse nel fluire del tempo. “Ma la diffusione temporale, per così dire, del sé -scrive ancora Wallace in un articolo pubblicato sul numero 1424 di Internazionale- significa che il modo di essere complessivo di una persona in qualsiasi momento non è che il risultato cumulativo di quello che è stata e di come si sta proiettando in avanti” [corsivo mio].

Ogni volta che realizziamo sistemi di intelligenza artificiale sotto la dettatura di ciò che riteniamo rilevante in un dato momento o contesto, corriamo il rischio di generare ambienti informativi che fisseranno nel tempo quella visione. In altri termini, discrimineremo le persone e i gruppi umani che li frequenteranno. Lo sperimentiamo sulla nostra pelle quando gli algoritmi ci raggruppano in categorie di targeting commerciale, proponendoci per sempre l’acquisto di alcolici anche se magari siamo astemi e abbiamo regalato una volta una bottiglia a un amico acquistandola online. Oppure lo vediamo (ed è peggio) quando Facebook ci spinge ad estremizzare alcuni tratti della nostra personalità, o alcune nostre convinzioni, rinforzandoli a forza di like, di contenuti consonanti e di “amicizie” che manifestano le stesse caratteristiche che l’intelligenza artificiale ha pensato fossero rilevanti in noi.

Discriminiamo anche quando -magari inconsciamente- trasferiamo i nostri pregiudizi ai sistemi di intelligenza artificiale, come è accaduto per esempio nei sistemi di riconoscimento facciale, o nell’algoritmo di selezione e propagazione dei contenuti di Twitter, che -a quanto abbiamo appreso in questi giorni- privilegia contenuti orientati politicamente a destra.

Un sistema di intelligenza artificiale può sicuramente imparare a riconoscere ciò che ci interessa in quanto individui. Facebook ad esempio lo deduce dai like che facciamo: dai commenti, dalle amicizie che stringiamo, da ciò su cui clicchiamo. Nella “nostra” homepage, Facebook cerca di mostrarci i contenuti con i quali è più probabile che interagiremo. In questo modo il suo sistema di intelligenza artificiale ci definisce per far coincidere il concetto di “rilevanza” con quello di “interesse individuale”. Ma una società, per preservare se stessa ed evolvere, dovrebbe attribuire rilevanza a quei contenuti, quei temi, quelle informazioni che sono importanti per gli individui in quanto membri di essa.

Su questo, consentitemi una piccola digressione da giornalista, oltre che da architetto dell’informazione: uno dei ruoli fondamentali del giornalismo è proprio selezionare i temi e le informazioni che è importante che tutti conoscano. Per farlo, è necessario avere prima di tutto un’idea di persona e di comunità. Un giornalista può decidere di mettere in prima pagina un’immagine sconvolgente, che nessuno vorrebbe vedere, per affermare: “questo è ciò che è bene che ognuno di voi sappia, anche se vi fa male saperlo”. Il senso della rilevanza per un giornalista dovrebbe coincidere con l’interesse per il bene comune e chi decide di informarsi su quel che accade leggendo le notizie su un social network dovrebbe tenere sempre a mente che in esso ciò che è considerato rilevante è al massimo quel che coincide con l’interesse individuale. infatti un algoritmo non può avere un’idea di “bene comune”, a meno che questa idea non sia stata programmaticamente inserita nei i suoi passaggi dal suo creatore. E non sarebbe espressione di un dialogo continuo, di una relazione costante con tutti contesti cangianti della vita di una comunità. Sarebbe un’idea pre-definita, mentre noi, in un mondo fatto di eventi che cambiano e che ci cambiano di continuo, scriviamo e riscriviamo le regole del nostro vivere giorno per giorno.

E noi designer? Come possiamo progettare nuovi ambienti informativi, nuovi servizi o prodotti, infondendo in essi la cultura delle persone, non degli individui, degli eventi, non delle cose, insomma una cultura che abbracci la volontà di non definire e discriminare, che consideri la realtà il fiore cangiante da cui siamo partiti?

Credo che sia una domanda centrale e urgente perché -come ci ricorda Floridi- il design deve avere necessariamente il ruolo di controbilanciare le spinte della tecnologia. Deve smarcarsi dal mero asservimento alla produzione di valore e giocare un ruolo più ampio nel costruire un’etica dell’informazione per l’intera infosfera, per le sue componenti e i suoi abitanti includendo l’artificiale e il digitale.

Per trovare una risposta a questa domanda innanzitutto dobbiamo essere consapevoli che abbracciare l’indefinito non significa abbracciare l’approssimazione. “L’approssimativo è il diavolo”, scriveva Italo Calvino. “Nei discorsi approssimativi nelle genericità, nell’imprecisione di pensiero e di linguaggio, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore sia nei rapporti con gli altri”. Abbracciando programmaticamente la volontà di non definire, di accogliere e rispettare le espressioni culturali di un mondo che considera la definizione come una violenza, abbiamo il dovere di pensare e di esprimerci con la massima precisione possibile. E dobbiamo farlo proprio perché la nuova realtà fisico-digitale è enormemente complessa. Dobbiamo rinunciare a considerare le cose o le informazioni in se stesse. Dobbiamo mettere al centro della nostra attività la convinzione che comprendiamo il significato di un contenuto in virtù di come si manifestano la sua struttura e le sue relazioni rispetto agli altri contenuti.

Come ha detto Andrea Resmini, dobbiamo pensare l’Architettura dell’Informazione e l’Experience Design come discipline che riguardano il processo, cioè quello che porta a costruire senso, più che i singoli artefatti che questo processo produce.

Dobbiamo rinunciare a progettare spazi in favore di luoghi. Luca Rosati ci ha insegnato che “lo spazio è la base materiale della nostra esperienza, del nostro esserci e abitare: è un’entità oggettiva, impersonale, indifferenziata. Il luogo è invece il risultato della nostra esperienza di uno spazio, del nostro abitarvi; va oltre lo spazio fisico, include ricordi, esperienze, comportamenti: è personale, soggettivo, comunitario”. E dobbiamo capire, che questi luoghi possono essere luoghi di felicità collettiva solamente se abilitano un reciproco dono di senso e scopo. Se dunque sono strutturalmente adattabili alle nuove forme di reciprocità, invece che univocamente definiti.

Progettare luoghi di questo tipo è difficile, sicuramente. Ma c’è un modo per riuscirci: rinunciare una volta per tutte al lavoro solitario, alla fiducia nelle nostre tecniche consolidate e -appunto- definite, in favore di una collaborazione multidisciplinare che comporti la ricerca continua, la relazione continua, l’evoluzione continua delle tecniche. Nel libro “Progettazione Funzionale” ho cercato di descrivere un metodo di design che partisse proprio da queste considerazioni. E nel farlo, ho capito che progettare è concentrarsi sulle relazioni e sulle infinite possibilità che queste schiudono. Non sulle individualità, sulle “cose”. E’ domandarsi per chi è ciò che facciamo, non cos’è che dobbiamo fare. E’ abilitare, non guidare. E’ pensare a progettare sistemi, non delle parti di essi. E considerare che questi sistemi devono essere matrici generative, non archivi. E’ capire che il linguaggio è uno strumento di design. E’ creare accesso, infinite possibili relazioni; non possesso, cioè relazioni esclusive. E’ innescare un movimento, non fissarne un suo stato. E’ schiudere, non è definire.

Parafrasando Elizabeth Strout, credo che quando avremo la sensazione di avere qualche risposta non dovremo osservare ciò che penseremo, ma ciò che faremo. Da questo capiremo se stiamo sulla strada giusta.

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